Card. Josyf Slipyj (1892-1984)
di Oscar Sanguinetti
1. La Chiesa ucraina
La cristianizzazione della Russia inizia verso il secolo IX e ha come evento fondamentale la conversione del grande principe di Kiev san Vladimiro (956 ca.-1015). Poiché la Russia gravita a lungo nell’orbita di Bisanzio, prevale in essa il rito bizantino-slavo, che però non cancella la presenza di comunità di rito latino. Lo scisma d’Oriente del 1054 fa sì che le Chiese russe dipendenti dal patriarcato sedicente “ortodosso” di Costantinopoli rompano anch’esse il legame di comunione con il Pontefice di Roma. Con l’ascesa del regno di Polonia-Lituania nel secolo XIV le Chiese appartenenti a quella vasta “terra di mezzo” fra mondo latino e mondo slavo da cui prende nome l’Ucraina — in particolare quelle della zona centro-meridionale, nota anche come Rutenia, nome latinizzato della Russia —, vi si trovano inglobate e ne subiscono a lungo andare l’influsso culturale e politico. Questo elemento, oltre al timore per l’avanzata del protestantesimo, nel secolo XVI determina il riavvicinamento delle Chiese rutene a Roma. Un sinodo, convocato a Brest-Litovsk, al confine fra la Bielorussia e la Polonia, dal 6 al 10 ottobre 1596, proclama la riunione delle Chiese facenti capo alla metropolìa di Kiev con la Sede di Pietro. La Chiesa greco-cattolica ucraina — detta anche “unita” — nel rinnovato legame con Roma conservava in toto i suoi secolari canoni e la sua originale liturgia rutena, e contribuiva così a formare e ad alimentare l’identità nazionale ucraina. Quando, fra il 1772 e il 1795, la Polonia viene smembrata fra gli Stati confinanti, le comunità greco-cattoliche si trovano divise fra l’Impero russo e l’Impero asburgico. Le diocesi più popolose — Leopoli, Przemysl e Chelm, raggruppate nella metropolìa di Halic — cadono nella Galizia austriaca, dove, con il favore della monarchia asburgica, conoscono anni di fioritura. Gli autocrati russi, custodi e protettori della Chiesa autocefala ortodossa — in particolare la zarina Caterina II (1729-1796) e lo zar Nicola I (1796-1855) — attuano invece una politica di aperta ostilità verso i greco-cattolici, che sfocia talora in violente persecuzioni: il metropolita di Kiev, Teodosio Rostockij (1787-1805), subisce l’arresto a vita per essersi recato a San Pietroburgo a perorare la causa del vincolo con Roma. Nella Galizia austriaca le cose mutano durante la prima guerra mondiale (1914-1918), quando la regione viene occupata dai russi, che imprigionano per tre anni nel monastero di Suzdal, a duecento chilometri da Mosca, il grande edificatore della Chiesa ucraina, l’arcivescovo-metropolita di Leopoli–Halycz, il conte Alessandro Roman Szeptickij (1900-1944), membro dell’ordine monastico basiliano con il nome di Andrea. Con la rivoluzione russa del 1917-1918 e dopo la guerra sovietico-polacca, protrattasi fino al 1921, il nucleo principale della Chiesa rutena — le tre diocesi della Galizia già asburgica — torna in seno alla Polonia, ricuperando la sua libertà. Nel 1928 arriverà a contare oltre tre milioni e mezzo di fedeli e 2.226 parrocchie. Fra il 1944 e il 1948, dopo la breve parentesi dell’occupazione tedesca e dell’autonomia nazionale, le diocesi ucraino-rutene si vengono a trovare tutte al di là della Cortina di Ferro. I governi socialcomunisti perseguono la liquidazione delle Chiese greco-cattoliche legate al Vaticano anti-comunista di Papa Pio XII (1939-1958) sia promuovendo riunioni “spontanee” con il patriarcato ortodosso di Mosca, sia spogliando la Gerarchia di ogni prerogativa ed eliminando con il GuLag i cattolici, religiosi e laici, “refrattari” all’operazione.
2. Mons. Slipyj capo della Chiesa ucraina
Nel 1939 Papa Pio XII decide la nomina di un successore dell’ormai anziano metropolita Andrea e la scelta cade sulla persona del brillante teologo monsignor Josyf Slipyj. Mons. Andrea Szeptickij muore nel novembre 1944 e il presule, nella drammatica situazione di occupazione comunista, si troverà non solo a incarnare l’anima della Chiesa ucraina, ma a essere il punto di riferimento spirituale per la Chiesa cattolica di tutte le Russie.
Josyf Ivanovyc Slipyj nasce il 17 febbraio 1892 a Zazdrist nei pressi di Ternopol, nell’arcidiocesi di Leopoli. Il nome della famiglia era Kobernyckyj-Dyckowskyj, ma il nonno era soprannominato slipyj, ossia “cieco”, a causa, pare, di un antenato accecato nel 1709 dai russi per aver appoggiato l’indipendentista ataman cosacco Ivan Stepanovic Mazepa-Kolendinskij (1644-1709) e gli svedesi di Carlo XII (1682-1718). Fin dal liceo, frequentato a Ternopol, il giovane Josyf evidenzia doti intellettuali non comuni che lo spingeranno a iscriversi alla facoltà di filosofia dell’università di Leopoli. Preso sotto il patrocinio di mons. Szeptickij, Josyf viene inviato a più riprese presso il collegio Canisianum dei gesuiti di Innsbruck in Austria. Il 30 settembre 1917, appena liberato da Susdal, mons. Szeptickij lo ordina sacerdote, nel monastero basiliano-studita — dal nome del monastero fondato da san Basilio (330 ca.-379) nel secolo V sul Bosforo e da san Teodoro Studita (759-826) — di Univ. Tornato in Austria, il giovane sacerdote vi si laurea in teologia e poi, per rafforzare il legame con la sede di Pietro, passa due anni a Roma, frequentando il Pontificio Istituto Orientale, lo studio domenicano dell’Angelicum e l’università Gregoriana dei gesuiti, dove consegue il titolo di magister aggregatus in teologia. Subito dopo è nominato professore di teologia dogmatica al seminario di Leopoli e intraprende un’eccezionale opera di promozione e di organizzazione culturale. Nel 1923 fonda la rivista trimestrale Bohoslovia, “Teologia”, poi passa a dirigere il seminario, diventa primo rettore dell’Accademia Teologica di Leopoli e, fra il 1929 e il 1944, presidente della Società Scientifica Teologica.
Nel 1944, con l’invasione dell’Armata Rossa, inizia il calvario della nazione — dove si svilupperà la resistenza clandestina dell’UPA, l’Ukraijnska Povstanska Armia, l’”Esercito di Liberazione Ucraino” —, della Chiesa ucraina e quello personale del suo pastore Slipyj. In breve tempo i membri della Gerarchia e centinaia di sacerdoti e di fedeli — le élite della società — vengono arrestati e deportati nel GuLag. I luoghi di culto vengono distrutti o chiusi o affidati al clero ortodosso e i superstiti cattolici “uniti” devono agire nella clandestinità più assoluta. Condannato, dopo un processo-farsa celebrato a Kiev nel 1946, per collaborazionismo e attività anti-sovietica a otto anni di prigionia, Josyf Slipyj comincia un lungo e drammatico pellegrinaggio fra i luoghi più sinistramente noti dell’arcipelago concentrazionario sovietico, dalla Mordovia a Workuta, a Potma. Il Governo, attraverso l’inumano regime dei campi di lavoro e soprattutto attraverso ininterrotti e micidiali trasferimenti del prigioniero da un Lager all’altro, tenterà di spezzare la resistenza fisica e morale del presule per indurlo a sottomettersi. In questa drammatica condizione, egli non darà mai cenni di cedimento né alle violenze, né alle lusinghe, di cui sarà talvolta oggetto: negherà sempre con granitica fermezza e forte logica le accuse rivoltegli e rivendicherà costantemente il suo status di arcivescovo, mai anteponendo il proprio destino personale alla sorte della sua Chiesa, della quale difenderà oltre ogni umano limite il diritto a esistere. Liberato allo spirare della condanna, si vede infliggere immediatamente — senza processo — l’esilio, che nel 1954 lo riproietta in Siberia, in una casa di reclusione per invalidi a Maklakovo, seicento chilometri a oriente di Krasnojarsk, ancora per quattro anni. Nel 1959 subisce un secondo processo che culmina con una nuova condanna a sette anni di GULag, che sconterà a Novosibirsk, poi nella penisola di Kamciatka in Estremo Oriente e ancora a Potma. A sessantasette anni di età quest’ultima condanna poteva significare la volontà di liquidare per sempre mons. Slipyj. La reiterazione della condanna dipendeva non solo dal fatto che il presule non si piegava a rinnegare il legame della sua Chiesa con Roma, ma anche che non aveva mai cessato di esercitare il ministero pastorale e primaziale anche durante gli anni della prigionia.
3. Mons. Slipyj nell’esilio
Nel 1963, grazie a negoziati intessuti dalla Santa Sede — con l’appoggio di organizzazioni internazionali e statunitensi — nominalmente per ottenere la partecipazione del presule al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), Josyf Slipyj viene improvvisamente liberato ed espulso dall’URSS. Incredulo, dopo quasi diciotto anni di calvario nel gelo e nelle sofferenze — come riferisce un suo biografo, mons. Ivan Choma, vescovo, procuratore della Chiesa Ucraina presso la Santa Sede, la prima cosa che chiede al momento dell’annuncio della liberazione è: “In forza di questo atto sono riabilitato? Le precedenti condanne sono quindi annullate oppure sono soltanto liberato? […] La mia liberazione significa il riconoscimento della libertà della Chiesa greco-cattolica?” —, mons. Slipyj si mostra riluttante ad abbandonare il suo paese e la sua Chiesa. Poi ubbidisce, ma prima di lasciare Mosca convoca d’urgenza un sacerdote redentorista ucraino, padre Wasyl Welyckowskyj — che verrà scoperto e arrestato nel 1969 e, dopo tre anni di carcere, verrà espulso —, e lo ordina vescovo il giorno stesso della partenza, 4 febbraio, incaricandolo della cura della Chiesa ucraina. Insediatosi presso l’abbazia greco-cattolica di san Nilo a Grottaferrata presso Roma, il 10 febbraio 1963 mons. Slipyj può abbracciare, dopo essersi prostrato ai suoi piedi — ripetendo l’atto di sottomissione fatto migliaia di volte nella preghiera e nella resistenza alla persecuzione —, Papa Giovanni XXIII (1958-1963), al tramonto della sua vita. Estromesso contro la sua volontà dal confronto con il regime sovietico e strappato alla sua Chiesa, mons. Slipyj avverte che da quel momento in poi potrà occuparsi più delle diocesi formate dai milioni di ucraini che la guerra e il comunismo hanno fatto esulare in tutto il mondo, che non del suo gregge sofferente in patria. I primi passi saranno la creazione a Roma di un’università cattolica ucraina, intitolata a san Clemente Papa (89 ca.-97), la fondazione di un monastero basiliano studita sul lago di Albano, nei pressi di Roma, nel 1964, e l’erezione della cattedrale di Santa Sofia a Roma nel 1969. Creato cardinale — lo era in pectore fin dal 1960 — e arcivescovo maggiore da Papa Paolo VI (1963-1978) il 22 febbraio 1965, difenderà ovunque con la massima energia le ragioni dei suoi fedeli perseguitati. Una prima occasione sarà il Concilio Ecumenico Vaticano II, nel quale leverà la voce per denunciare la tragedia in atto e chiedere una definizione di libertà religiosa precisa e vincolante per lo Stato. Lo stesso farà nel 1967 e nel 1971, in occasione del primo e del secondo sinodo dei vescovi. Desta impressione il vigore e l’assenza di perifrasi nei discorsi del cardinale, in netto contrasto con i toni sfumati dell’era della Ostpolitik vaticana, che per i suoi presupposti non concedeva troppo spazio alla denuncia delle sofferenze delle Chiese perseguitate. Anche la pressante richiesta, fatta a Papa Paolo VI il 13 dicembre 1976, di un indirizzo di conforto al popolo ucraino, non avrà esito. Mons. Slipyj non disdegnerà neppure i pulpiti offerti dal mondo profano, per esempio partecipando — come parte lesa e come testimone — alle sessioni del Tribunale Sacharov sulle violazioni dei diritti umani in URSS, a Roma, nel novembre del 1977. Già assai avanti negli anni, fra il 1968 e il 1976, intraprende lunghi e faticosi viaggi presso le comunità della diaspora ucraina nelle Americhe, in Australia e in Europa.
Il cardinale degli ucraini conclude la “buona battaglia” venerdì 7 settembre 1984; le sue spoglie riescono a ricevere l’omaggio di Papa Giovanni Paolo II, in quel giorno in partenza per il Canada. Il governo dell’Ucraina indipendente, resa la libertà ai greco-cattolici, riabiliterà Josyf Slipyj il 3 giugno e il 19 settembre 1991, rispettivamente per le condanne subìte nel 1959 e nel 1946.
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Note:
Per approfondire: vedi le vicende della Chiesa ucraina-rutena in Giuseppe Olsr S.J., Ruteni, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1952; Alberto Galter, Libro rosso della Chiesa perseguitata, trad. it., Àncora, Milano 1956, e Cristiani d’Ucraina. Un popolo dilaniato ma indomabile, Aiuto alla Chiesa che soffre, Roma 1983; sul cardinale, vedi mons. Ivan Choma, Josyf Slipyj “Vinctus Christi” et “Defensor Unitatis”, Universitas Catholica Ucrainorum S. Clementis Papae, Roma 1997; Idem, Josyf Slipyj. Padre e confessore della Chiesa Ucraina martire, Aiuto alla Chiesa che soffre, Roma 1990, e Josyf Cardinale Slipyj. 1892-1984. Una Imitazione di Cristo, numero speciale di Eco dell’Amore, n. 2, marzo 1985; del cardinale, vedi Testamento, trad. it., in Quaderni di “Cristianità”, anno I, n. 2, estate 1985, pp. 26-44.
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