domenica 5 settembre 2021

“La Sinodalità” , discorso del Card. Angelo Bagnasco all'incontro dei Vescovi di Rito Orientale del 5-9-2021



Budapest, 5.9.2021
Incontro dei Vescovi di Rito Orientale

“La Sinodalità”

Cardinale Angelo Bagnasco
Presidente del Consiglio Conferenze Episcopali d’Europa





Cari Confratelli,
sono lieto di incontrarvi nel contesto del Congresso Eucaristico Internazionale, per il vostro
consueto Incontro di Vescovi Cattolici di Rito Orientale.


1. Il tema dell’Incontro

L’obiettivo dei vostri lavori è la Sinodalità, che voi ben conoscete perché fa parte della vostra storia
e della vita delle Chiese delle quali siete Gerarchi. Io posso offrirvi qualche considerazione sull’anima
della Sinodalità, cioè la comunione, realtà che il Concilio Vaticano II ha riconosciuto al centro della
riflessione ecclesiologica, e che Papa Francesco invita a riscoprire nelle sue differenti modalità. Di
ogni realtà è necessario – per non disperderci – andare al cuore, e in questo insediarsi con la preghiera,
l’intelligenza della fede e la luce dello Spirito.
Il volto della comunione – nella misura in cui si riflette nei Pastori e nelle comunità - è anche
una risposta, anzi lieto annuncio per il mondo travagliato da conflitti, divisioni e ingiustizie. Quanto
più l’umanità è ferita da queste piaghe, tanto più cresce la nostalgia di un mondo che sia famiglia e
casa. La Chiesa, Corpo mistico di Cristo, Popolo di Dio nel tempo, deve dire che questo sogno è
possibile e che si chiama Gesù. Deve dire che questo sogno è già reale, e attende la sua pienezza nel
momento del ritorno glorioso del Signore, quando Dio sarà tutto in tutti. La Chiesa deve essere
anticipo visibile della realtà che Cristo ha iniziato nella sua persona e che continua nel suo mistico
Corpo. Penso che questa consapevolezza debba crescere nei credenti in Gesù, vincendo la tentazione
diabolica della divisione sempre pronta alla porta dell’anima.


2. Un’immagine biblica: Babele

“Venite, costruiamo una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non
disperderci su tutta la terra” (Gen 11,4). Gli uomini vogliono farsi un nome e non disperdersi, hanno
un desiderio legittimo di identità, di avere un volto e una terra, di appartenere ad un luogo,a un popolo,
ad una cultura. Tutto ciò è buono in sé, ma raggiungere il cielo con le proprie mani non è desiderio
di vicinanza, ma volontà di possesso, delirio di autonomia, cioè distacco e lontananza dal Signore.
Volevano che la loro vita e la loro storia fossero nelle loro mani non in quelle di Dio: rivendicavano
una autonomia miope e suicida. Quando l’uomo, infatti, vuole sbarazzarsi di Dio non si emancipa ma
su nega. Per la gente dell’antica Babele l’unità non era un dono da chiedere, bensì un loro progetto e
quindi un possesso.
Questo atteggiamento interiore sembra si sia impadronito della cultura contemporanea, tanto
da essere aggressivo verso le culture che non intendono piegarsi. Ma quanto più gli uomini si
ripiegano su se stessi, tanto meno si comprendono tra loro: si allontanano e si dividono. Dio non è
geloso della libertà dell’uomo, ma il virus della divisione è intrinseco alla libertà se male intesa:
anziché costruire, divide.


3. La comunità del cenacolo

Negli Atti degli Apostoli incontriamo una realtà opposta: “Erano assidui nell’ascolto
dell’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera (…)
Prendevano i pasti in letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il
popolo” (Atti 2).
Non siamo davanti a un progetto umano, ma a persone che si affidano a Colui che hanno visto morire
sulla croce e che ora alcuni dicono di aver visto vivo.
Di questa fede fiduciale ormai vivono, in essa si sostengono, pregano l’Invisibile, ripetono il
gesto eucaristico della Fractio panis, si aiutano materialmente con i loro beni e le loro povertà. Chi
entra nel cenacolo vede un gruppo di umili, di piccoli senza potere, ma ricchi di una misteriosa letizia.
Da dove tutto questo? Quale il loro segreto? Essi credono con il cuore che Lui c’è ed è lì con loro, e
come un tempo dice parole di eternità (catechesi), li guarda con occhi che scaldano l’anima
(preghiera), li nutre col pane degli angeli (Eucaristia), si vogliono bene sul suo esempio e col suo
amore (koinonia). E’ questo il segreto della letizia che traspare dai loro volti e si alimenta della fede
che, come il sangue nelle vene, scorre nelle loro vite e diventa domanda, simpatia, attrattiva per
alcuni, a volte sospetto e ripulsa per altri.


4. ”Non temete”

Alla luce della vicenda di Babele e della prima comunità cristiana, vorrei tentare una quasi definizione
di comunione. Con questa parola. profondamente umana ma sacra, perché primordiale e perché tocca
Dio stesso, pensiamo a quel dono dello Spirito per il quale l’uomo non è più solo né lontano da Dio,
ma è chiamato ad essere parte della Comunione Trinitaria. In forza di questo legame, egli è lieto di
trovare ovunque dei fratelli con i quali condividere il mistero del suo rapporto con Dio. La comunione
con la Trinità fonda e guida la comunità ecclesiale, al punto che ogni vulnus all’unità manifesta il
prevalere della mondanità di Babele. E’ il peccato della cecità della mente e della chiusura del cuore:
l’io si mette al posto di Cristo, e la Chiesa è percepita più come progetto e possesso che come grazia
da servire con la vita.
La fonte, dunque, della comunione non è una decisione umana, e la Chiesa non è
un’organizzazione di qualcuno che ne può disporre a piacimento. Tutto è dono dall’Alto e, quando la
risposta degli uomini è insufficiente, allora la prima cosa da fare non è discutere ma pregare, non è
sedersi ma inginocchiarsi davanti a Cristo, e adorare per ritrovare Dio, la Chiesa, noi stessi.
Come ogni dono dello Spirito, la comunione genera nella Chiesa doveri e impegni, e diventa
programma di vita. Per la grazia della comunione dobbiamo vivere nella carità evangelica, e costruire
quella unità visibile in cui Gesù ha individuato la condizione perché il mondo creda. L’impegno a
cui il discepolo è chiamato - essere strumento di unità - supera le forze umane. Queste portano in sé
spinte divisive, ma la grandezza del dono contiene la grazia sufficiente per agire all’altezza del
compito. Risuona l’invito del Maestro: “Non temete, io sono con voi”.


5. La comunione per la missione

“Il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il Battesimo, si
uniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al Sacrifico e alla Mensa del Signore”
(Vaticano II, SC 10). I Padri conciliari, parlando della Chiesa che riflette la luce del sole di Cristo,
usano queste parole: “La Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima
unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1). Le forme primarie che esprimono e
realizzano la natura misterica e la missione universale della Chiesa sono la Celebrazione Eucaristica
e la comunione visibile dei credenti.
Lo Spirito, in qualunque tempo, sostiene l’azine missionaria della Chiesa nelle sue diverse
azioni; l’annuncio esplicito di Cristo, la celebrazione del culto e dei sacramenti, la cura pastorale dei
credenti e la promozione umana. Le sue diverse forme hanno la stessa sorgente e sono accompagnate
da “segni e prodigi” come la prima predicazione. Tali segni non sono, di solito, di natura miracolosa,
ma c’è un segno che ha un carattere certamente straordinario: la nostra comunione, l’unità delle menti
e dei cuori. E’ questo il prodigio – potremmo dire il miracolo – di cui il mondo ha particolare bisogno
poiché smarrito e lacerato. Questo segno rende visibile l’Invisibile, fa toccare con mano l’annuncio
evangelico, è segno del Risorto. Nessun altro peccato, nella comunità cristiana, può maggiormente
oscurare la credibilità della missione come la divisione, la concorrenza, l’invidia, il calcolo, la
finzione e l’intrigo, la permanente litigiosità d’interesse. In una parola, la mentalità del mondo.
Per tale motivo, non solamente ascetico ma anche teologico, ecclesiologico e pastorale, il dono
della comunione – che è non solo uno stile di vita, ma che si declina anche in modalità canoniche,
come per voi, cari Confratelli, è il Santo Sinodo - richiede una disciplina personale e comunitaria. La
cura dell’anima nella preghiera e nella continua conversione, riveste pertanto un forte valore
pastorale.


6. L’Eucaristia, sorgente e forma della vita cristiana e della Comunità

“Dal costato di Cristo dormiente sulla Croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa” (SC
5). Il mistero della Pasqua è il grembo che genera la Chiesa, e l’Eucaristia ripresenta quel grembo
sofferente e glorioso che non cessa di rigenerare il suo Corpo. Partecipando all’unica Mensa,
celebriamo nella forma più alta la sua unità: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo
un corpo solo; tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10.17).
Se l’Eucaristia è la sorgente perenne della Chiesa, ne è altresì la forma. In altri termini, la
Chiesa deve non tanto piegarsi su se stessa problematizzandosi, ma convertire lo sguardo al suo
Signore, per rinnovare il suo amore di sposa per lo sposo. In questa prospettiva, sono inadeguati criteri
del mondo: i numeri, le risorse, l’organizzazione, il personale a disposizione, il grado di consenso. Il
criterio di discernimento è la fedeltà a Cristo, alla sua vita, alla Tradizione ecclesiale che non è un
insieme di abitudini mutevoli, ma un fiume carsico che, nei millenni, ha creato realtà meravigliose
sempre attuali, perché corrispondono alle esigenze profonde dell’ essere umano.
Come sono illuminanti e danno conforto le parole del Concilio. “La Chiesa è soggetta al suo
Capo”(LG 7)! E’ una soggezione che, lontano da umiliare, eleva; anziché schiacciare, rassicura;
invece che frenare, dà slancio e fiducia. Nello stesso tempo libera dalla presunzione di guardare se
stessa con affanno; libera dalla presunzione di camminare nella storia senza essere presa dal mondo.
La soggezione della Chiesa a Cristo-Capo è la stessa soggezione a Cristo-Sposo: a Lui la Sposa guarda
con amore e fiducia. E’ dunque un appello a tenere vigile il cuore e fisso lo sguardo a Lui, per poter
guardare l’umanità con i suoi occhi, parlare al mondo con le sue parole, servirlo con il suo amore. Il
suo sguardo apre alla bellezza, la sua parola è verità, il suo cuore dona e genera amore.
Nella forma eucaristica incontriamo Gesù che ci salva dal peccato – male dei mali – facendosi
offerta sull’altare della croce, segno supremo della sua consegna al Padre, aprendo così la strada verso
il Cielo. Per questo possiamo dire che il Verbo incarnato non è morto di compassione, ma d’amore:
la compassione condivide, l’amore condivide ed eleva. Se l’Eucaristia è la forma della Chiesa, allora
essa è chiamata non solo a condividere difficoltà e miserie, ma ad elevare gli uomini fino all’altezza
di Dio, fino alla vita della Trinità. Ecco la nuova condizione di figli nel Figlio e la vita di grazia. In
altre parole, sia la comunione in ogni sua espressione, sia le opere di carità, devono avere il sigillo di
Cristo che è quello dell’amore che porta le pene del mondo e lo eleva fino a Dio. L’agire della Chiesa
non deve essere psicologico o solo morale, ma religioso, anzi cristico, in quanto lascia che Cristo
continui ad operare nella storia fino alla fine del mondo. In questa prospettiva, il volto dell’ unità
deve lasciar trasparire il volto del Risorto al di là dei nostri volti. Questo dev’essere il desiderio
sincero di ciascuno, singoli, gruppi e istituzioni.


7. “Piccolo gregge”

Infine, uno sguardo alla situazione europea. A volte, la cultura diffusa del nostro continente sembra
un deserto dello spirito, ma sotto la superficie sappiamo che la vita brulica: una moltitudine di persone
umili e concrete vive senza rumore nella luce del Vangelo e della Tradizione della Chiesa come lievito
e sale dei nostri popoli. L’anima profonda di intere Nazioni è ancora segnata dal sangue versato per
la fede e per la libertà, amando la propria storia di dignità e di sacrificio. Inoltre, così come il deserto
fiorisce, anche le coscienze lentamente si risvegliano, si pongono interrogativi e guardano inquieti i
frutti di una cultura sempre più individualista che vuole sbarazzarsi di Dio mettendo a rischio l’uomo
e la società. Nessuno conosce il futuro, ma in alcune parti dell’Europa la situazione minoritaria della
Chiesa Cattolica, e più in generale della Cristianità, sembra evidente.
Quale considerazione possiamo trarne? Mi pare che – come spesso abbiamo condiviso nei
nostri incontri – dobbiamo intensificare innanzitutto l’adorazione di Dio, e di conseguenza la
testimonianza della gioia cristiana e della comunione ecclesiale in tutte le sue forme. Tra queste,
certamente quella della sinodalità come istituzione e come stile spicca con particolare rilievo. Nella
logica del “piccolo gregge” di cui parla il Signore, come Pastori dobbiamo aiutare i fedeli affinché
le comunità cristiane non siano comunità psichiche ma spirituali, non realtà sociologiche ma religiose,
non organizzazioni che confidano nella quantità dei mezzi umani ma in Gesù. Da queste comunità
potrà sempre meglio elevarsi la voce che dirà: “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo
anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi (…) e la nostra gioia sia piena” (1 Gv 1).
Anche per noi Vescovi risuona l’invito di Sant’Ignazio di Antiochia: state uniti tra voi come
“le corde alla lira (…) così, nell’amore della concordia, attraverso l’unione stabile, prenderete il tono
di Dio, e canterete tutti a una sola voce (…) le lodi del Padre” (Lettera agli Efesini).


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